Testo pubblicato nel catalogo di Fotografia 2010. Futurspectives, Roma settembre 2010
di Valentina Tanni
La disseminazione del fotografico
“Free the camera from reality
and let one take Picassos
directly from nature.”
(Ezra Pound, 1916)
Il periodo storico che coincide con l’invenzione del dagherrotipo fu attraversato da un allargamento esponenziale del campo del visibile. L’ingrandimento, il rallentatore, il fermo immagine, la fotografia microscopica e quella aerea permisero all’uomo di moltiplicare il raggio visivo e modificare per sempre la sua coscienza del mondo.
“La fotografia si configura allo stesso tempo come il trionfo e la tomba dell’occhio”, scrive Jean‐Louis Comolli sintetizzando la relazione paradossale che si stabilisce tra una visione “meccanizzata” della realtà ‐ che ha reso possibile una sempre più massiccia invasione di immagini ‐ e lo sguardo naturale, usurpato e potenziato allo stesso tempo.
Da allora i rivolgimenti tecnologici e culturali sono stati numerosi. L’intero ecosistema visuale, all’interno del quale la fotografia svolge un ruolo determinante, è tuttora in piena mutazione. L’introduzione del linguaggio digitale ha determinato una deflagrazione dell’universo visivo, rendendo le immagini sempre più malleabili, incoraggiandone la creazione, la manipolazione, la condivisione, la ri‐combinazione e l’archiviazione. Se alcune delle conseguenze di questo processo (la perdita di immediatezza, il venir meno della fede nell’immagine fotografica come testimonianza, il disperdersi di una sapienza tecnica e linguistica accumulata nei decenni) mettono in crisi la fotografia come la conosciamo, privandola di molti tratti che ne hanno costituito storicamente lo “specifico”, allo stesso tempo la potenziano oltre ogni immaginazione.
L’incontro con i nuovi media corrisponde infatti a una disseminazione inarrestabile del fotografico. Le immagini si manifestano su una miriade di supporti e le macchine fotografiche sono incorporate in decine di oggetti diversi: computer, cellulari, smartphone, lettori mp3. La malleabilità della fotografia in formato digitale ‐ una qualità quasi scultorea ‐ ha spalancato le porte verso una prolifica, eccitante, fase di sperimentazione, che spinge gli artisti e i professionisti dell’immagine verso la creazione di nuovi stili e linguaggi.
Come l’avvento della fotografia liberò la pittura dall’assillo della rappresentazione realistica, l’era del digitale e l’avvento di Internet sembrano aver definitivamente portato a termine un analogo processo di liberazione applicato alla pratica fotografica, che si apre a infinite interpretazioni. Reinventandosi a contatto con il video, il cinema, la grafica computerizzata, i sistemi interattivi, l’universo connettivo del Web.
Non va inoltre dimenticato il ruolo centrale della fotografia nella formazione dei nuovi linguaggi. Per aumentare il grado di “realismo” e immediatezza – il cosiddetto fotorealismo – la grafica digitale assume i criteri della fotografia: punto di vista unico, disposizione delle fonti di luce, inquadrature.
Quello a cui stiamo assistendo è un processo di “rimediazione” (la definizione è di Jay David Bolter e Richard Gruisin): i nuovi strumenti rimodellano i vecchi e questi ultimi si reinventano per rispondere alle sfide lanciate dai primi.
Parafrasando Comolli, citato in apertura, potremmo dire che la rivoluzione digitale “si configura allo stesso tempo come il trionfo e la tomba della fotografia”.
L’esempio più eclatante dell’onnipresenza della fotografia è rappresentato da Google Street View, servizio online che permette di “passeggiare” virtualmente per il mondo grazie a viste panoramiche a 360° composte da fotografie. Per realizzare le immagini, Google Street View si serve di apposite fotocamere dotate di molteplici obiettivi e collocate sul tetto di alcune automobili.
L’artista canadese Jon Rafman (Montreal), autore del progetto The Nine Eyes of Google Street View (2009) ha collezionato una serie di istantanee prelevate dall’immenso “tappeto” di scatti messo insieme dall’obiettivo neutro e meccanizzato di Google. La serie fotografica che ne deriva, accompagnata da un significativo saggio, mette l’accento sulla tensione tra la visione imparziale del meccanismo tecnologico, che non sceglie e non giudica, e la tendenza dell’uomo a cercare senso e significato – o addirittura volontà – in tutte le immagini.
Mappe e leggende
“Maybe he’s caught in the legend,
Maybe he’s caught in the mood
Maybe these maps and legends
Have been misunderstood”
(R.E.M, Maps and legends, 1985)
L’errore più ricorrente, nei discorsi sulla fotografia, è quello che tende a trattarla come un’entità monolitica, trascurando la sua natura flessibile di linguaggio. Le identità e i ruoli sociali della fotografia sono da sempre – sin dalla sua invenzione – molteplici e profondamente diversi. Come diversi sono i soggetti e gli oggetti che, di volta in volta, appaiono dietro e davanti l’obiettivo, rendendo il fiume di immagini che ne scaturisce mutevole e multiforme.
Curiosamente, il web soffre della stessa distorsione di giudizio. Lo pensiamo singolare, mentre si sta configurando, con sempre maggiore evidenza, come il luogo delle diversità, il regno delle alternative. Lungi dall’essere soltanto l’ultima tecnologia, Internet ha assunto già da tempo i chiari contorni di una cultura: è più un luogo che uno strumento, ed è abitato da tante comunità, piccole e grandi.
L’incontro tra la cultura fotografica e la cultura del web è dunque un incontro tra due realtà diversificate e instabili. Per questo, tracciarne i contorni può essere un esercizio insidioso e la mappatura che questa mostra propone ha i pregi e i difetti dell’istantanea: è vitale ma necessariamente transitoria.
“Maps and legends” si pone come obiettivo la ricognizione di un territorio in continua evoluzione, una cartografia in progress sulle relazioni che la pratica fotografica sta intessendo con il mondo della Rete, con la sua cultura, il suo linguaggio, il suo immaginario.
Il nostro percorso comincia simbolicamente da un progetto che si svolge tutto su una mappa: quella digitale di Google Earth. Remap Berlin, dell’italiano Marco Cadioli (Milano, 1960) è un virus culturale in grado di sfumare i confini tra mondo reale e universo virtuale (in questo caso, la replica di Berlino costruita sul mirror world Twinity). Allo stesso tempo, però, è un progetto fotografico puro, frutto dell’esplorazione di un territorio ancora in costruzione, un mondo digitale i cui confini sono sempre temporanei.
Foto-dipendenze
“Why is it drug addicts
and computer aficionados
are both called users?”
(Clifford Stoll, Silicon Snake Oil, 1995)
L’immagine fotografica circola sul web in infinite versioni e formati diversi; viene compressa, tagliata, spedita, scaricata. L’informazione di cui è composta diminuisce e cambia, i colori virano, i dettagli svaniscono. Le fotografie non sono più oggetto di contemplazione, ma di uso compulsivo, un consumo costante che sembra quasi deteriorarle (già nel 1984 Frederic Jameson, nel suo celebre saggio sul postmodernismo parlava di “crescente dipendenza dall’immagine fotografica”).
In un recente saggio intitolato “In Defense of the Poor Image”, la studiosa e filmmaker Hito Steyerl descrive con efficacia una delle caratteristiche principali della cultura visuale legata a Internet, la predominanza di un’estetica della bassa risoluzione:
“The poor image is a rag or a rip; an AVI or a JPEG, a lumpen proletarian in the class society of appearances, ranked and valued according to its resolution. The poor image has been uploaded, downloaded, shared, reformatted, and reedited. It transforms quality into accessibility, exhibition value into cult value, films into clips, contemplation into distraction.”
Inizialmente, la perdita di definizione e di “ricchezza” sembrava semplicemente il prezzo da pagare per la circolazione delle immagini, per la loro diffusione globale. Ma in realtà la trasmissione non è che l’inizio, la fase embrionale di un processo che ha conseguenze profonde sulla cultura visuale contemporanea. La facilità di scambio e modifica delle immagini porta infatti con facilità all’appropriazione, una condizione che determina in primis affezione, e in secondo luogo reinterpretazione.
Queste dinamiche hanno portato in brevissimo tempo al sorgere di una vera e propria estetica. Un universo visuale fatto di immagini sgranate, distorte, manipolate, che sta influenzando un’intera generazione di artisti e fotografi. Una generazione che predilige la velocità e l’intensità, che non teme le interferenze (visive e culturali) e che guarda con curiosità crescente al mondo della creatività amatoriale. Ai valori e agli umori espressi da una nuova cultura popolare (si parla di digital folklore) che abita la rete e costruisce, giorno dopo giorno, la sua cultura visiva.
L’instabilità dell’immagine digitale e il suo ruolo all’interno del sistema dei media sono temi centrali nel lavoro di Martijn Hendriks (Eindhoven, 1973 vive ad Amsterdam), presente in mostra con l’opera Found image of Michael Jackson downloaded from the internet and uploaded to a free online age processing website, printed once in black and white and once in color (2009). La foto, un ritratto di Michael Jackson, è stata scaricata da Internet, processata tramite un software che invecchia artificialmente i volti e poi stampata in due versioni. Il procedimento è semplice e gli strumenti utilizzati di accesso comune: il titolo, dunque, non è nient’altro che una serie di istruzioni.
La fotografia, in questo caso come in molti altri all’interno di questo progetto espositivo, è materiale trovato, scelto nel mare di alternative possibili, ma la sua ricontestualizzazione aggiunge numerosi livelli di significato. Astrae il processo di manipolazione e lo standardizza; contemporaneamente, interviene sul tempo, mostrando a chi guarda un futuro che non è mai avvenuto. La foto di Jackson è stata invecchiata partendo infatti un ritratto giovanile, anteriore ai numerosi interventi di chirurgia plastica che lo avrebbero completamente trasfigurato. Il volto è familiare e straniante allo stesso tempo; è un’icona distorta, disturbante, geneticamente modificata.
Fotografie decostruite, hackerate, letteralmente smontate, sono alla base della ricerca dell’altro artista olandese presente in mostra: Harm van den Dorpel (Amsterdam, 1981), che nei suoi lavori riflette sulla grammatica visuale delle immagini mediali. La struttura semantica delle foto – ancora una volta il materiale è trovato – viene smontata per mostrarne limiti e paradossi.
La riflessione chiave riguarda la percezione visiva e, in secondo luogo la fiducia dell’immagine fotografica. Cosa distingue una manipolazione credibile da una decisamente incredibile? Dove si trova il confine oltre il quale smettiamo di percepire una fotografia come una “citazione” della realtà?
Sono passati quasi trent’anni dal famoso “caso National Geographic”, che nel 1982 decise di spostare digitalmente la piramide di Giza di qualche metro per farla entrare nel formato verticale della propria copertina, dando il via a un dibattito tuttora acceso sull’opportunità e persino sulla “moralità” di tali operazioni. Oggi, in una delle sue immagini più note, van den Dorpel trasforma la piramide in un surreale monumento curvo (Swing. Ancient Modeling, 2008). Guardandola viene da chiedersi: ma una piramide che cammina è davvero più plausibile di una che si avvita su sè stessa?
Di segno ironico l’opera di Justin Kemp (Wisconsin, USA, 1982, vive a Northampton), che servendosi di spezzoni video scaricati dalla banca immagini Getty Images, racconta quello che ormai è un nuovo genere di ritratto fotografico: la foto del profilo. Perfect Profile Pic (2008) è una sequenza di brevissime riprese che mostrano persone di diversa età ed estrazione sociale, intente nella stessa operazione: l’autoscatto destinato alla pubblicazione on line sui social network. Armati di macchinette digitali e telefoni cellulari, tutti ammiccano all’obiettivo, che consuetudine vuole venga posizionato in alto e leggermente di lato. Alla ricerca del proprio “profilo migliore”.
Paradossali e ironiche anche le immagini di Filippo Minelli (Brescia, 1983), che usa la fotografia per documentare i suoi interventi nello spazio pubblico. Nella serie Contradictions (2008-2010) l’artista giustappone i marchi di alcuni tra i più noti social network (Facebook, Flickr, Myspace…) ad ambienti poveri o desolati, che sembrano lontani anni luce dalla frenesia economica e tecnologica evocata da questi brand.
A moment in time
“The enemy of photography is the convention,
the fixed rules of ‘how to do’.
The salvation of photography comes
from the experiment.”
(Laszlo Moholy-Nagy)
Le GIF animate (Graphics Interchange Format) sono l’emblema di un certo tipo di estetica vintage applicata alla rete. Uno stile visivo retrò, fatto di forme semplici, una ristretta tavola di colori, la griglia dei pixel ben in vista. Il formato, uno dei primi a consentire l’inserimento di elementi animati all’interno delle pagine web tramite il montaggio in successione, all’interno di un unico file immagine, di molteplici frame, è in uso sin dagli albori di Internet. Mai completamente scomparso, anche se surclassato da sistemi più avanzati come Flash, è protagonista di un movimento di recupero e rivalutazione. Movimento che comprende un vasto complesso di forme e formati ritenuti ormai obsoleti: i frame, i font tridimensionali, i file midi, i bottoni. Un lessico dilettantesco e amatoriale, lontano dalle raffinatezze del web design contemporaneo, che l’artista russa Olia Lialina ha efficacemente definito “vernacolare”.
Il fotografo messicano Jaime Martínez (Monterrey, Mexico, 1978, vive a Città del Messico) sperimenta una sorprendente e raffinata commistione tra il formato GIF e la fotografia. Un effetto cinematico minimale aggiunge ai suoi scatti un’iniezione di vita e tridimensionalità, avvicinandoli, dal punto di vista estetico, alle vecchie cartoline 3D o agli stereogrammi dell’Ottocento, che offrivano all’osservatore l’illusione del movimento tramite la giustapposizione di due o più istantanee. Come dischi scratchati in un eterno loop, le fotografie animate di Martínez rappresentano una serie di momenti congelati nel tempo, bloccati ma sempre sul punto di ripartire.
Un altro modo di introdurre la dimensione temporale nel linguaggio fotografico, rafforzandone la dimensione narrativa, è rappresentato dall’ormai diffusissimo formato dello slideshow. In uso da decenni e adottato da numerosi artisti che l’hanno messo al centro della propria ricerca, indagandone le possibilità estetiche e linguistiche, sul web assume nuove connotazioni. Non più semplicemente una sequenza di immagini, lo slideshow è spesso soltanto una delle opzioni possibili per la fruizione degli album fotografici. Le possibilità di navigazione attraverso le immagini sono molteplici e incrociate, affiancate da elementi multimediali e talvolta affidate alle scelte dell’utente, che può guidare il suo viaggio attraverso il racconto secondo modalità individuali.
Carlo Zanni (La Spezia, 1975, vive a Milano), ad esempio, presenta quello che soltanto apparentemente è uno slideshow di fotografie accompagnato da musica. In realtà, a uno sguardo più attento, le immagini rivelano la propria instabilità, il proprio carattere mutevole e “vivo”. In The Fifth Day (2009), infatti, gli scatti vengono influenzati da informazioni prelevate in tempo reale da Internet, trasformandosi in un materiale visivo dalla qualità scultorea.
Nel caso di Days With My Father, serie fotografica firmata dall’americano Phillip Toledano (Londra, 1968, vive a New York), il formato dello slideshow si fonde con quello del photo-essay: testi e immagini si affiancano e sostengono a vicenda in un sito web semplice ma di grande impatto. Una storia toccante – l’artista documenta la vita quotidiana accanto al suo anziano padre dopo la morte di sua madre – che Toledano ha deciso di condividere sul web attraverso un sito dall’url omonimo: www.dayswithmyfather.com. Il progetto è stato visitato, ad oggi, da oltre un milione di persone, e circa 200 mila commenti sono stati aggiunti nel guestbook messo a disposizione dall’artista, costruendo una riflessione collettiva sul tema della morte e sul rapporto tra genitori e figli.
Un modo totalmente diverso di interpretare la fotografia come pratica sociale condivisa, capace di stabilire forti connessioni tra le persone, è rappresentato dal progetto Buttons del tedesco Sascha Pohflepp (Colonia, 1978, vive a Londra). L’opera, una macchina fotografica priva di parti ottiche, è un oggetto pensato per valorizzare la componente temporale legata all’atto del fotografare e per mettere l’accento sul processo di countinua condivisione delle immagini sul web. Catturare immagini e condividerle è infatti sempre più spesso un unico atto, composto da due azioni in rapida successione: si scatta affinchè si possa condividere.
Così, invece di “congelare” un’immagine affinchè ci ricordi un determinato momento, Buttons registra soltanto l’ora esatta in cui il suo pulsante è stato premuto. Dopo un lasso di tempo variabile, sul display compare una fotografia scattata da qualcun’altro nello stesso identico istante e pubblicata su Flickr, famoso servizio di pubblicazione e archiviazione di fotografie online. Una macchina fotografica cieca, quindi, che non vede ma registra il passare del tempo. Un tempo scandito da milioni di scatti. Pulsanti premuti ogni secondo, disseminati sull’intera superficie del mondo.
Riferimenti bibliografici
Ron Burnett, How Images Think, Cambridge MA, The Mit Press, 2004
Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation, Cambridge MA, The Mit Press, 1999
Jean-Louis Comolli, Machines of the Visible, in Timothy Druckery, a cura di, Electronic Culture. Technology and Visual Representation, New York, Aperture Foundation, 1996
Fredric Jameson, Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism. Duke UP, 1991
Olia Lialina, Dragan Espenschied, Digital Folklore, Merz Akademie, Germania, 2009
Peter Lunenfeld, Snap to grid. A user’s guide to Digital Arts, Media and Cultures, Cambridge MA, The Mit Press, 2000
Lev Manovich, The Paradoxes of Digital Photography, in Photography After Photography, catalogo della mostra, Artstock, Monaco, 1995
William Mitchell, The Reconfigured Eye: Visual Truth in the Post-Photographic Era, Cambridge MA, The Mit Press, 1992
Jon Rafman, The Nine Eyes of Google Street View, in Art Fag City, agosto 2009
Fred Ritchin, After Photography, W. W. Norton & Company, 2008
Hito Steyerl, In Defense of the Poor Image, in E-flux 11/2009, www.e-flux.com
Harriet Zinnes, ed., Ezra Pound and the Visual Arts, New York: New Directions, 1980
Testo scritto per la mostra “Maps and Legends. When Photography Met the Web”. Fotografia. Festival Internazionale di Roma 2010. www.fotografiafestival.it